Il dolore che mi ha portato in comunità mi ingabbia. Sbagliata, inadeguata, sola. Ecco chi sono ai miei occhi: una ragazza di vent’anni che si isola in camera, perché ogni sguardo è un’accusa, un’ulteriore conferma della mia nullità. I miei compagni di scuola, gli amici, non possono volermi bene, perché sbagliata. Mamma e papà mi rassicurano, mi dicono di stare tranquilla in casa, che a casa sono al sicuro, in casa devo sentirmi bene. lo mi chiudo in questa casa, ma è solo muri ciechi e sordi. Mi taglio, perché mi dà sollievo.

Ecco come entro a Il Volo, convinta che non cambierà nulla. Passano i giorni e continuo a stare male. Gli operatori mi sono accanto, gli psicoterapeuti mi parlano. Perché mi fanno questo? Non vedono come sono? In comunità, ma sono sempre e solo muri intorno a me. Non c’è nessun senso di casa, un senso di appartenenza a qualcosa o qualcuno, nessun legame che unisca l’ambiente ad un senso di benessere.

Ogni giorno un volto mi sorride al mattino, una voce mi incoraggia durante le attività. Le loro presenze costanti vicino a me, insieme a me. Ci sono e mi aiutano a fare: prendermi cura di me, pulire ed ordinare la mia stanza, cucinare i pasti. E non solo: insieme per capirmi. Si, aprirmi uno sguardo diverso su me stessa e farmi intravedere uno spiraglio per uscire da questa gabbia.

I primi giorni non passano, l’orologio è fermo. Passa un mese, poi un altro ed ecco un anno in comunità. I muri iniziano a parlare, iniziano a vedermi. Inizio, io, a vedermi in un ambiente con suoni, sapori, volti che mi danno serenità. La comunità inizia a darmi la sensazione di avere casa. Imparo a vedermi per quella che sono. E mi piace. Non mi serve più farmi male per alleviare il dolore. Sono insieme ad altre persone, in comunità, e con loro mi sento a casa. Il mio percorso continua e, dopo due anni, lascio Il Volo per iniziare una nuova vita, 1n un nuovo appartamento dove intraprenderò gli studi universitari.
Studio per diventare un’infermiera, inizio a vivere.
Ecco, finalmente sento casa.

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